"L'illusione non si mangia"
"Non si mangia, ma alimenta"
(Gabriel Garcia Marquez)

venerdì 4 marzo 2011

Tiberio Bentivoglio, la libertà non ha pizzo

In piedi, Tiberio Bentivoglio
La sanitaria S.Elia
REGGIO CALABRIA – Quattro colpi di pistola 7,65, impugnata nervosamente in una campagna coltivata a ortaggi. Il conto, a febbraio, gliel’hanno presentato così: di mattina presto, dove non te l’aspetti, di spalle. Solo che Tiberio Bentivoglio quel momento l’aveva messo probabilmente in conto da 19 anni, se l’era pure figurato in tutte le variabili possibili e, al primo proiettile che gli ha addentato il polpaccio, ha reagito tuffandosi dentro il furgone da cui era appena sceso; poi ha risposto al fuoco. La pistola custodita da anni nell’inseparabile marsupio gli ha in effetti salvato la vita, ma solo perché, prima di essere sguainata, ha intercettato il proiettile indirizzato alla schiena che avrebbe potuto ucciderlo, eliminando l’uomo e - quel che forse più contava - il suo pessimo esempio. “E’ inutile dire che non si ha paura, che la scelta di denunciare è immediata. Sono solo sciocchezze. Si pondera bene prima di mettere nero su bianco una denuncia. Solo che la paura viene vinta da un altro sentimento importante che si chiama disperazione. Che fai, cambi mestiere o cambi città? Non sono d’accordo. E così si arriva alla denuncia”. Cinquantotto anni, titolare della sanitaria “Sant’Elia” nel rione Condera di Reggio Calabria, un anno prima degli spari Tiberio Bentivoglio la sua scelta di ribellarsi al racket l’aveva raccontata così. Di lì a pochi giorni sarebbe stato il primo a ricevere il logo di “Reggioliberareggio”, la rete che come socio di Libera aveva contribuito a costruire per sostenere le vittime del pizzo, promuovere il consumo critico ed invitare alla denuncia i commercianti e gli imprenditori taglieggiati di Reggio Calabria.  

“La libertà non ha pizzo” - Al 9 febbraio 2011 - giorno in cui in località Ortì, in una zona pedemontana della città, Bentivoglio è sfuggito ad un agguato di chiaro stampo mafioso - quelli che hanno aderito alla rete sono ormai quasi trenta, centinaia i cittadini impegnati a supportare le vittime del racket attraverso acquisti ‘ndrangheta-free, decine gli incontri di sensibilizzazione organizzati nelle parrocchie, nelle scuole, in piazza. E Tiberio ogni volta c’è stato, in prima fila, a reggere lo striscione con lo slogan “la libertà non ha pizzo” e a farsi testimone di una scelta di dignità raccontata snocciolando, con fredda precisione, le date di un assedio cominciato con un grosso furto: era il 10 luglio 1992. “Avevo deciso di ingrandire l’attività ma a Reggio Calabria anche per ingrandirsi bisogna chiedere il permesso. Le richieste di soldi sono state tutte rispedite al mittente perché non intendo sedermi allo stesso tavolo di un malandrino”. Nel 1998 gli distruggono un furgone. Il 5 aprile 2003 piazzano un ordigno esplosivo all’ingresso del negozio. Bentivoglio denuncia e collabora con gli investigatori, condividendo sospetti ed indizi e costituendosi parte civile nel processo contro i due “soldati” di ‘ndrangheta accusati dell’attentato ma poi assolti. Il 13 aprile 2005 il messaggio della ‘ndrangheta diventa rabbioso: la sanitaria è completamente divorata da un incendio doloso, l’attività economica è in ginocchio. Sul piano giudiziario, però, questa volta le indagini mostrano di girare nel verso giusto. Ci sono intercettazioni ambientali che sembrano inchiodare i responsabili, infastiditi, a quanto pare, anche dalla volontà della famiglia Bentivoglio di dare vita in località Pietrastorta ad un’associazione culturale. Nei faldoni spuntano nomi al di sopra di ogni sospetto. Il commerciante è riconosciuto parte offesa e si costituisce parte civile. Ma l’impianto accusatorio portato in aula dal sostituto procuratore della Dda di Reggio, Mario Andrigo, non regge per intero: nel febbraio 2010, esattamente un anno prima dell’agguato, i processi scaturiti dalle inchieste “Eremo” e Pietrasorta” mandano assolto dall’accusa di estorsione Santo Crucitti, il suo presunto taglieggiatore e boss emergente condannato, però, a 6 anni e otto mesi di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. Un boccone amaro. Non il solo, ovviamente.  “La famosa terra bruciata esiste veramente. Una volta che ti costituisci parte civile chi non era un vero amico ha paura anche di starti vicino o di venire a comprare al negozio. Sono tante le persone che ho visto sparire dall’oggi al domani. Senza contare il veto opposto dalle cosche che hanno marchiato la mia attività commerciale. Nei fatti ho subito un calo delle vendite del 50 per cento”. Contraccolpi “ambientali” e, forse più inattesi ma altrettanto pesanti, contraccolpi burocratici. “Dallo Stato ho avuto un semplice acconto che corrisponde al 10 per cento del danno che ho subito. Ho fatto ricorso in ogni evento alla legge 44/99 per accedere al fondo di solidarietà previsto, ma solo in un caso sono stato riconosciuto vittima di mafia: è un paradosso, sei riconosciuto parte offesa nei procedimenti ma non vittima. In ogni caso a cinque anni dall’attentato del 2005 la mia pratica è ancora in discussione. Quando mio figlio mi chiede che scelta abbiamo fatto e se ci è convenuto stare dalla parte della giustizia, ci sono momenti in cui non so cosa rispondere. Momenti in cui lo Stato sembra lontanissimo da me e dalla mia famiglia”. L’amarezza di Bentivoglio non si è fatta, però, sfiducia. Al fianco di Filippo Cogliandro, lo chef del ristorante “L’Accademia” che ha fatto arrestare il suo estorsore, di Stefania Laganà, mamma del piccolo Antonino ferito gravemente in un agguato a Melito Porto Salvo nel 2008, e di molte altre vittime riunite attorno al coordinamento reggino di “Libera” Bentivoglio ha trasformato la sua esperienza in testimonianza, la sua scelta personale in impegno messo al servizio di “Reggioliberareggio”, la rete di oltre 50 associazioni battezzata il 20 aprile 2010 in un auditorium San Paolo stracolmo di autorità e cittadini. Nella città dove oltre il 70 per cento dei commercianti pagano il permesso di esistere una sfida inedita.

Un’esperienza nel mirino – “E’ giunta l’ora di svegliarsi dal torpore della rassegnazione e della sottomissione, non si può e non si deve continuare ad alimentare l’economia della criminalità organizzata, con la nostra remissività, occorre reagire ed opporsi al racket in tutte le sue forme”, dice Bentivoglio quel giorno, aggiungendo con orgoglio “nessun mafioso si potrà vantare di essere divenuto il mio estortore”. Tracciata a partire dalle indicazioni delle stesse vittime, la strada proposta da “ReggioliberaReggio” chiama tutti ad un’assunzione concreta di responsabilità: la politica con leggi meno farragginose, Comuni e banche con sgravi fiscali ed agevolazioni nei confronti di chi denuncia, i cittadini attraverso il consumo critico per sostenere gli imprenditori che hanno detto no al racket. Per la prima volta a Reggio, infatti, la campagna promuove un logo per segnalare gli esercizi commerciali e le imprese “pizzo free” e offrire così ai consumatori la possibilità di comprare nei negozi che non foraggiano le cosche. Un’iniziativa in cui convivono concretezza e un fortissimo impatto simbolico. Ma non è la sola in quei mesi. La bomba piazzata il 3 gennaio 2010 davanti al portone della Procura generale, infatti, sembra avere scosso le coscienze: incoraggiati da un’intensa stagione di inchieste giudiziarie, arresti e pentimenti eccellenti, sono tanti i reggini che ai colpi della ‘ndrangheta ribattono nel corso dei mesi affollando sit-in, fiaccolate, assemblee e schierandosi al fianco dei magistrati bersaglio di intimidazioni. Segni palpabili di un risveglio che si alternano, però, ai colpi di pistola. Ferita, la ‘ndrangheta non recede, piuttosto lancia a sua volta segnali rabbiosi. Il 7 gennaio 2011, in pieno centro storico, Giuseppe Sorgonà viene ammazzato mentre è alla guida della sua Fiat 500. E’ un parrucchiere incensurato, ha 25 anni e un figlio di un anno e mezzo che mentre i sicari fanno fuoco si trova nel seggiolino, sul sedile posteriore. I primi soccorritori lo estraggono sano e salvo. Il 24 gennaio viene gambizzato l’imprenditore edile Carmelo De Bruno: aveva appena iniziato il rifacimento della facciata di un palazzo reggino e, secondo l’ipotesi degli investigatori, non aveva versato il “dovuto” alle cosche locali. Alla fiaccolata per ricordare Sorgonà, ad un mese dall’omicidio, Bentivoglio è in prima fila con i soci di Libera e gli attivisti del movimento “Reggio non tace”. Sul corso Garibaldi quel pomeriggio si sfila in silenzio e con un po’ di amarezza: impossibile non notare che le serrande dei negozi ai due lati della via dello shopping, delle boutique delle grandi griffe e dei ricambi continui di insegne e proprietari,  sono tutte alzate. Nessuno ha accolto l’invito a manifestare sostegno e solidarietà. Due giorni dopo scatterà l’agguato a Bentivoglio, per il quale è stato immediatamente disposto un servizio di tutela. Non sfugge a nessuno, però, che ad essere nel mirino è un’intera esperienza, è un intero percorso a dover essere difeso.

“Io ho scelto” – La reazione di “Libera” è nel segno della corresponsabilità. “Non sappiamo chi ha sparato e chi ha armato la mano di chi ha sparato”, recita il documento “Senza paura, sulla strada giusta” presentato pochi giorni dopo l’agguato dal coordinamento reggino dell’associazione guidato da Mimmo Nasone. “Siamo convinti, però, - analizzano i soci - che all’alba del 9 febbraio 2011, nelle campagne di Reggio Calabria, hanno tentato di ammazzare Tiberio Bentivoglio per uccidere l’uomo e, con l’uomo, il percorso di liberazione dal ricatto delle cosche che stiamo indicando da oltre un anno. Hanno tentato di porre fine ad una vita e, nel contempo, ad un’esperienza che evidentemente sta cogliendo nel segno: a Reggio Calabria sono quasi trenta i commercianti e gli imprenditori che hanno già deciso di metterci la faccia, esponendo il logo della campagna antiracket “ReggioliberaReggio” sulla vetrina dei negozi per ratificare simbolicamente il proprio “no” al pizzo. Un faticoso e silenzioso cammino di riscatto che ha visto Tiberio, ma non solo Tiberio, impegnato in prima linea”. All’analisi segue, fermo ed immediato, il rilancio: “Avevamo chiaramente messo in conto di poter suscitare fastidi e reazioni. Il messaggio, consegnato a colpi di pistola il 9 febbraio 2011, conferma le nostre previsioni, è inequivocabile e lo consideriamo rivolto a ciascuno di noi e a tutti i reggini onesti e responsabili che in queste ore si sono stretti attorno alla famiglia di Tiberio. A quel messaggio di violenza rispondiamo oggi nell’unico modo che conosciamo: rilanciando il nostro impegno sul territorio, nella convinzione che la strada è quella giusta e che non si deve avere paura, ma anche pretendendo una corale ed immediata assunzione di responsabilità da parte della politica, delle istituzioni, del mondo imprenditoriale, delle comunità ecclesiali e di tutta la società civile, mai come in questo momento chiamate a supportare con i fatti questo percorso di liberazione. A Tiberio, alle altre vittime del racket e ai tanti commercianti reggini che hanno deciso di compiere una scelta di libertà e dignità va infatti garantita ogni forma di sostegno e tutela. Devono sentire di non essere soli. Devono sapere di avere al proprio fianco un’intera comunità. Perché non vogliamo eroi, perché gli eroi non servono”. Corresponsabilità, dunque, ma anche concretezza, con l’immediato avvio di una campagna settimanale di consumo critico che ha invitato a fare acquisti ‘ndrangheta-free alla sanitaria di Bentivoglio. Con tanto di cartolina di solidarietà. “Perché la mia scelta – recitava lo slogan – fa la differenza”.

(pubblicato su Narcomafie il 4 marzo 2011)

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