"L'illusione non si mangia"
"Non si mangia, ma alimenta"
(Gabriel Garcia Marquez)

venerdì 2 aprile 2010

Sant'Onofrio, la festa è finita

SANT’ONOFRIO –  Il priore della Confraternita del Santissimo Rosario deve avere la mano ferma. Nell’antica rappresentazione dell’Affruntata – la tradizionale processione della domenica di Pasqua a Sant’Onofrio, nel Vibonese – suo è il delicato compito di svelare la statua della Madonna in trepidante corsa verso il Figlio Risorto. E’ il momento più emozionante del sacro rituale: un errore, un’incertezza, il manto nero che incespica senza cadere completamente e un cattivo presagio aleggerebbe pesantissimo sull’intero paese, tremila anime raccolte a pochi metri dallo svincolo della Sa-Rc. La mattina del 4 aprile 2010, domenica di Pasqua e dell’Affruntata, le mani di Michele Virdò, 54enne autista delle Ferrovie della Calabria e dal 2006 priore della Confraternita, stanno tremando. Qualcuno nel corso della notte ha fatto il tiro a segno contro il suo portone di casa, lungo la strada provinciale, e pensando ai fori lasciati dai colpi di pistola Virdò si dichiara indisponibile a presenziare alla processione. Lo stesso, a stretto giro, fanno tutti i confratelli, per solidarietà nei confronti del priore, si dirà ufficialmente, per paura, penseranno tutti in paese: a don Franco Fragalà, parroco di Sant’Onofrio, non resta che avvisare il vescovo della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, monsignor Luigi Renzo, che alla fine decide di sospendere la rappresentazione. Le statue della Madonna, di San Giovanni e del Cristo Risorto restano chiuse nella Chiesa del Santissimo Rosario, da sole, in attesa che qualcuno, in paese, trovi il coraggio di issarle sulle spalle. Una cosa mai successa nella storia del paese ma, soprattutto, un pericoloso cedimento di terreno ai picciotti dei clan che non lascia spazio a frantendimenti o interpretazioni di comodo. A Vibo Valentia il prefetto Luisa Latella non ci sta e sbatte il pugno sul tavolo: “Le statue sono pronta a portarle io, se necessario”. La Procura di Vibo Valentia e la Dda di Catanzaro aprono due diversi fascicoli d’inchiesta. La guerra dell’Affruntata è dichiarata.  

La devozione dei Bonavota – A dubitare della matrice mafiosa dell’intimidazione sembra solo Michele Virdò, infastidito dal clamore mediatico immediatamente assunto dalla vicenda: “La ‘ndrangheta esiste solo a Sant’Onofrio? Abito sulla provinciale, il sabato sera circolano un sacco di balordi, magari non ho dato la precedenza a qualcuno che si è vendicato sparando. Non credo che la processione c’entri niente con l’episodio, anche perché l’Affruntata appartiene da sempre a tutti i santonofresi”. Virdò ha ragione. Sotto le statue della Madonna, di Gesù e di San Giovanni negli anni ci sono passati davvero tutti e la fedina penale, per decenni, non ha creato ostacoli di sorta. Tuttaltro. In una foto che risale alla Pasqua del 1989 un uomo fissa dritto nell’obiettivo con sguardo fiero: indossa la mantella bianca e azzurra della Confraternita e regge con entrambe le mani un bastone. L’uomo si chiama Vincenzo Bonavota ed è lo storico padrino di Sant’Onofrio, riconosciuto da una sentenza del Tribunale di Vibo Valentia come il capo dell’omonima associazione mafiosa. E’ un boss vecchio stampo, don Vincenzo, sempre presente in prima fila all’Affruntata, intento a dispensare benedizioni a destra e a manca. Per i magistrati che agli inizi del Novanta lo condannano in via definitiva per mafia è a capo di un’organizzazione criminale “di forma rudimentale e a carattere familistico”. Ed è implacabile. Dalla cruenta faida con i Petrolo-Matina-Bartolotta del vicino paese di Stefanaconi è il solo a uscire vincitore, nonostante il massacro che un commando della ‘ndrina di Rosario Petrolo compie a Sant’Onofrio il 6 gennaio 1991, lasciando sull’asfalto di piazza Umberto I due morti (Rosario Cugliari e Antonio Lopreiato, alleati e parenti dei Bonavota) e nove feriti tra i fedeli appena usciti dalla messa. Mandanti e killer della strage dell’Epifania finiranno in carcere o decideranno di collaborare con la giustizia, lui reggerà il bastone del comando per vent’anni, fino a quando, sconfitto da vecchiaia e malattia, cederà onori ed oneri ai sei figli maschi. Altra generazione, altra ‘ndrangheta. Non più solo controllo del territorio di competenza, ma fiumi di soldi, infiltrazioni nelle istituzioni locali, ramificazioni in altre regioni italiane (soprattutto in Lazio e Piemonte), proficue alleanze con le ‘ndrine più potenti del Vibonese (i Mancuso di Limbadi, gli Anello di Filadelfia, i Lo Bianco di Vibo Valentia).  Nel 2005 la denuncia di un gioielliere, strozzato da tassi usurai del 120% annuo e intimidazioni, svela i movimenti finanziari della cosca. Due anni dopo l’inchiesta “Uova di drago”, coordinata dal pm antimafia Marisa Manzini, conferma il nuovo profilo criminale assunto dalla ‘ndrina di Sant’Onofrio sotto la guida di Pasquale Bonavota, il maggiore dei figli di don Vincenzo. Per i magistrati della Dda di Catanzaro proprio Pasquale avrebbe retto da Roma le fila degli affari del clan, indossando gli abiti del “contabile” e del “criminale”, specializzandosi nel settore redditizio dei giochi elettronici (società riferibili al clan sono state individuate  a Carmagnola e Moncalieri, nel Torinese) ed esercitando attraverso la presenza dei fratelli in Calabria una pressione asfissiante soprattutto sugli insediamenti dell’area industriale di Maierato e sugli esercizi commerciali di Vibo e Pizzo. Con il capobastone Pasquale finiscono nelle maglie dell’inchiesta, tra gli altri, i fratelli Domenico (catturato in un secondo tempo a Genova) e Nicola Bonavota, ma anche l’ex assessore allo Sport del Comune di Sant’Onofrio, Filippo Trimboli, ritenuto l’uomo del clan nell’amministrazione comunale. Nel 2009 il Consiglio comunale di Sant’Onofrio sarà sciolto per infiltrazioni mafiose. La nuova e moderna holding criminale mantiene, però, le radici ben piantate nella tradizione: i figli di don Vincenzo non hanno dimenticato l’antico rispetto dovuto all’Affruntata. Ovviamente in salsa di ‘ndrangheta. A rivelare le valenze simboliche che la processione possiede per gli uomini della cosca è il pentito Rosario Michienzi, l’autista del commando della strage dell’Epifania: “I picciotti battezzati durante l’anno fanno la loro prima apparizione pubblica in occasione dell’Affruntata: dovono portare la statua di San Giovanni e come San Giovanni inchinarsi davanti alla statua della Madonna portata dai capibastone”. Insomma, il sacro infangato per decenni dalla ‘ndrangheta, sotto gli occhi assuefatti della Chiesa, con i boss in prima fila a dirigere la liturgia e i cittadini onesti costretti a subire la sfilata di padrini e picciotti. 

Il sacro all’asta – A spezzare questo intreccio velenoso arrivano, però, nel febbraio 2009, nuove, stringenti direttive del vescovo di Mileto che dice basta all’incanto del sacro, basta alle buste chiuse, gonfie di soldi, con cui per anni i soliti noti si sono comprati a Sant’Onofrio il diritto di pavoneggiarsi sotto le statue dell’Affruntata. La tradizione, vecchia, ostinata e diffusa in altri centri calabresi, era già stata al centro di una dura presa di posizione di alcuni parroci del Vibonese che nel novembre 2008, coordinati da don Tonino Vattiata, anima di Libera Vibo e combattivo sacerdote di Vazzano, presentarono un documento contro la ‘ndrangheta condiviso da monsignor Renzo: “Via i mafiosi dalla Chiesa. E’ ora che i parroci, i cristiani escano dalle sacristie per gridare basta alla criminalità”, tuonò nell’occasione don Tonino. Partendo dagli “omicidi, dalle estorsioni, dagli attentati incendiari, dai traffici illeciti, dai Consigli comunali sciolti per mafia, il documento è un vero e proprio grido d’allarme contro la criminalità, che sta mettendo in ginocchio tutto il territorio, infliggendo un duro colpo alla democrazia e al diritto di convivenza, con un invito a coloro che sono nel mondo della criminalità e a coloro che la favoreggiano ad abbandonare questo stile di vita, che è in contrasto con gli insegnamenti di Gesù nei Vangeli e che il loro ostentare una pseudo-fede in Dio e nei Santi non può trovare accoglienza presso Dio stesso”. Sul banco degli imputati anche i comitati organizzatori delle feste religiose, infiltrati dai padrini, e l’asta del sacro. Il cammino di liberazione intrapreso dalla Chiesa vibonese nel 2009 sbarca dunque a Sant’Onofrio, dove finalmente tramonta la tradizione delle buste chiuse sostituita dal più democratico sorteggio tra gli iscritti alla Congregazione. L’intoppo, però, è dietro l’angolo: i confratelli sono più di duecento e, come ampiamente testimoniato dai fatti, niente affatto selezionati sul piano dei precedenti con la giustizia. “Non abbiamo mai chiesto a nessuno la fedina penale. La processione appartiene a tutti”, ribadisce Virdò. Il risultato, ampiamente prevedibile, fu quello di ritrovarsi, anche quell’anno, con le stesse facce sotto le statue. “Molti confratelli sorteggiati lasciarono il posto ai picciotti. Per paura”, racconta un investigatore. Dunque, un nulla di fatto. Fino al 2010, quando in paese si applica per la prima volta il veto contro i condannati per mafia e coloro che siano coinvolti in processi di mafia. Il Venerdì Santo i nomi dei portantini sono già pubblici. Sabato notte, alla vigilia della prima Affruntata ripulita dalla ‘ndrangheta, i colpi di pistola contro la casa del priore. Domenica 4 aprile 2010 Sant’Onofrio non festeggia. I vecchi scavano nella memoria senza trovare neppure una Pasqua senza processione. La ferita è profonda e va rimarginata subito.

L’Affruntata liberata – Su questo punto Stato e Chiesa convergono immediatamente, cercando di superare l’iniziale incomprensione: “L’ordine pubblico in paese lo garantisce lo Stato, non la ‘ndrangheta, c’erano tutte le condizioni di sicurezza per far svolgere l’Affruntata, la sospensione è stata una sconfitta”, ha riflettuto amaramente in quei giorni il prefetto Latella. Tant’è. La processione di Sant’Onofrio è ormai diventata una questione di principio, un simbolico campo di battaglia su cui le forze del bene provano a dimostrare che quelle del male non prevarranno. Sono giorni febbrili e tesi. Gli investigatori passano al setaccio il paese – 30 bossoli vengono ritrovati in un loculo del cimitero e spediti al Ris per le comparazioni con i colpi di pistola esplosi contro la casa del priore – la parrocchia rimette in moto la macchina organizzativa, i cittadini onesti fanno sentire la propria indignazione sognando su facebook di vivere a “Sant’Onofrio Paese de-‘ndranghetizzato”. Qualcuno morde il freno. A don Tonino Vattiata, arrivato in piazza per esprimere solidarietà al parroco e al priore, due giovani rivolgono pesanti minacce. La solidarietà, le dichiarazioni di intenti e lo scalpore non cancellano, insomma, i problemi pratici. E la gioia con cui la mattina dell’11 aprile, con una settimana di ritardo, Sant’Onofrio si riappropria finalmente dell’Affruntata non riesce a mimetizzarli del tutto. Per completare il numero dei dodici portantini necessari per lo svolgimento della processione don Franco Fragalà è stato infatti costretto a cercare freneticamente fuori dalla Confraternita. E gli oltre duecento iscritti vantati dal priore? “Sa, molti sono anziani. Non ce la fanno a trasportare le statue”, prova a giustificare, per amor di patria, qualcuno. Fortunatamente, questa volta, c’è chi risponde con coraggio. Ragazzi come Giuseppe che sotto una mantellina non sua si presenta per reggere da volontario la statua di San Giovanni, quella destinata ai picciotti battezzati, per la prima volta costretti a godersi la processione da spettatori recalcitranti, a pochi metri di distanza dalle autorità arrivate con i lampeggianti accesi e le auto blu. L’applauso liberatorio che alla fine spezza il drammatico silenzio del rito serve a sfogare tensioni, attesa, rabbia, forse anche il fastidio per un paese militarizzato, con carabinieri, poliziotti e finanzieri impegnati a blindare dalle prime luci dell’alba vicoli e vie d’accesso. Nello svelamento della Madonna che abbandona il manto nero del lutto per salutare con una veste candida il Figlio risorto, molti a Sant’Onofrio sognano altre liberazioni. Forse per questo, conclusa l’Affruntata, qualcuno da un balcone grida “Viva il vescovo”, facendo commuovere monsignor Renzo che di lì a poco, nel corso della sua attesa omelia, inviterà i giovani della ‘ndrangheta alla conversione: “Oggi rivolgo un saluto di pace anche a chi ha preso una via deviata. Credete a Gesù per allontanare la vostra vita dal male e dalla violenza. Oggi è la domenica della misericordia e del perdono”. Il prefetto guarda la folla di famiglie, palloncini e telecamere e sorride. 

Festa al bar – Dall’altra parte della piazza, all’ombra della Matrice e di fronte al monumento ai Caduti, gli avventori si accalcano davanti il bar “Da Nicola”. Nella domenica dell’Affruntata è il locale del paese che ha servito più caffè. Al banco si sono dati il cambio, festosamente, compaesani e forestieri, giornalisti, attivisti antimafia, curiosi. Per i proprietari una vera giornata di festa e di affari. Della perquisizione effettuata dai carabinieri prima dell’apertura è rimasto solo un verbale nel cassetto. In mezzo agli altri. Il “Nicola” dell’insegna è Nicola Bonavota e non si fa impressionare dalle attenzioni degli sbirri: con i cinque fratelli ci ha fatto l’abitudine da tempo. Pregiudicato, arrestato e poi assolto nel procedimento “Uova di Drago”, Nicola ha festeggiato la domenica dell’Affruntata con un incasso da record; a pochi metri di distanza gli ospiti istituzionali della processione salutavano con soddisfazione la vittoria dello Stato e della Chiesa sulla ‘ndrangheta. 

(pubblicato sul n.4/2010 di Narcomafie)

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