“Sarà che la storia si ripete o che la genetica non cambia, ho ripetuto e sto ripetendo passo dopo passo quello che nella mia famiglia è già successo. E sa qual è la cosa la peggiore? La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi aspetta”. Un mese dopo tenteranno di sequestrarla, sette mesi dopo ci riusciranno, facendola sparire. Nell’aprile 2009, prendendo carta e penna per chiedere aiuto al Presidente della Repubblica, Lea Garofalo non drammatizza né manifesta particolari doti profetiche, semplicemente conosce la ‘ndrangheta e le sue regole. E sa che chi le ha ripetutamente infrante, come ha fatto lei provando a dare una sterzata al destino, sarà prima o poi chiamato a pagare il prezzo più caro. Quando scrive il suo accorato appello, denunciando la “mancanza di tutela adeguata” e firmandosi “una giovane madre disperata”, Lea è una donna stanca e sfiduciata, con i suoi 35 anni che pesano come fossero il doppio. Dal giorno in cui ha deciso di collaborare con la giustizia, sette anni prima, ha vissuto provvisoriamente inserita in un regime di protezione insieme con la figlia Denise, combattendo davanti al Tar e al Consiglio di Stato per non vedersi sottratto anche quell’incerto scudo protettivo. Alla fine ha deciso, imprudentemente, di farne a meno. La sera del 24 novembre 2010, mentre passeggia per le vie di Milano, Lea è una donna sola, ha il suo aguzzino accanto e sta per sparire per sempre. Per i magistrati del Tribunale di Milano, che nell’ottobre 2010 hanno disposto la misura cautelare in carcere per l’ex convivente e padre di sua figlia Carlo Cosco e per altre 5 persone, è stata sequestrata, torturata, uccisa e sciolta nell’acido, “allo scopo – si legge nell’ordinanza firmata dal Gip Giuseppe Gennari - di punire una persona che, già contigua per ragioni familiari ad una cosca della ‘ndrangheta e quindi tenuta al rigoroso rispetto dell’omertà più assoluta, aveva invece violato tale precetto, con la sua decisione di collaborare con l’Autorità Giudiziaria”.